domenica 15 febbraio 2015

Verde speranza.

Non mettevo piede in quel reparto da un bel po' di mesi, da quando la mia terapia era ormai finita. Due giorni fa ritorno, questa volta non per me. È stato un attimo. Avevo dimenticato - anche se non completamente -  cosa si provava a star lì, a vedere quei volti, a leggere gli occhi di quelle persone. Pazienti, infermieri, medici, volontari. Lì tutti hanno qualcosa da raccontare, qualcosa che difficilmente poi scordi. Non sono di quelle storie che ascolti magari un po' distrattamente, le immagazzini per dieci minuti e poi le cancelli. No. Quelle storie te le porti dentro che ti piaccia o no, le riporti alla mente quando meno te l'aspetti, sono in grado di cambiare per sempre il tuo modo di vedere le cose, la vita. La vita. Sì, perché quelle sono storie di vita, di una vita viva, vera, ruvida, ma pur sempre tremendamente bellissima. 
Mi incammino nel corridoio e la prima cosa che i miei occhi scrutano è un paio di occhi seduti in lontananza. Non riesco ancora ad individuarne il colore o il proprietario, perché sono un po' lontani da me, ma li avverto, li sento osservarmi, cercarmi. Mi avvicino a quegli occhi. Sono femminili, verdi, di un verde quasi trasparente. Il colore riprende la mascherina che la proprietaria indossa per difendere il suo organismo da un mondo troppo infetto e spiccano sulla pelle diafana, bianca come un giglio. Mi guarda, fissa il suo sguardo dentro il mio e ce lo pianta dentro. Ricambio il suo sguardo e cerco di fissare anche il mio nel suo. Forse ci sono riuscita, forse no, chi lo sa. Accenno un sorriso, non la conosco e non vorrei sembrarle invadente o, peggio ancora, pietosa. So bene come si sentono quando ricevono gli sguardi pietosi e compassionevoli di chi li guarda, come se fossero dei poveracci condannati e non voglio suscitare in lei quel sentimento. Da dietro la mascherina scorgo un impercettibile movimento sul suo viso. Ha ricambiato il sorriso e mi lascia andare. 
Al ritorno, la trovo ancora lì, seduta su quella panchinetta nel corridoio del reparto. È persa nei suoi pensieri, questa giovane donna. Fissa un punto nel vuoto, apparentemente incurante del fatto che accanto a lei un'altra giovane donna prova a fare due passi, aggrappata ad una sorta di girello, mentre la chemio scorre giù dal tubicino della flebo. Chissà dove la stanno portando, quei pensieri. 
Si accorge della mia presenza e mi rifissa. Questa volta i suoi occhi mi comunicano altro. Se prima erano fra il curioso e il diffidente, adesso sono speranzosi. Eccolo lì, quell'attimo. È l'attimo in cui scorgi l'essenza della vita. La sua profondità, la sua bellezza. I suoi occhi mi dicono soltanto "Speranza" e io capisco immediatamente che sta combattendo con tutte le sue forze, come la migliore delle guerriere. Capisco che ce la sta mettendo tutta, che ha voglia di abbandonare quel posto, di tornare a respirare senza una mascherina sul viso. E allora mi viene spontaneo rivolgerle il mio miglior sorriso, quello che uso per incoraggiare un'amica. In realtà, avrei voluto abbracciarla e dirle che no, non è sola e che sì, ce la farà, ma non ne ho avuto il coraggio, così ho soltanto sorriso. A quel punto, i suoi occhi mi chiedono di portarla fuori di lì e io l'ho portata. L'ho portata qui, in questo spazio, a te che leggi e che adesso hai fatto la sua conoscenza. 
Arrivo alla porta del reparto e faccio per andarmene. Mi volto indietro e lei è ancora lì a fissarmi. Le sorrido da lontano e vado via. Vado via con la rinnovata consapevolezza che sono i nostri sogni e le nostre speranze ad alimentarci, a tenerci in vita. Senza saremmo perduti. Ed è stato bellissimo riscoprirlo. Vado via con il sorriso perché c'è più vita negli occhi di una donna leucemica che in un ventenne senza sogni. Vado via con il sorriso perché sono stata fortunata ad imbattermi in quella Speranza e in quella Vita dagli occhi verdi.


Connie




Questa riflessione è stata pubblicata anche su Italians, il blog di Beppe Severgnini. Lo trovate qui .